Tariffe e Lacrime: Perché gli Stati Uniti Dovranno Ingoiare il Rospo Cinese
Le Trattative di Londra? Quando l'America Torna a Casa a Mani Vuote
Le recenti negoziazioni tra Cina e Stati Uniti, prima e seconda tornata a Londra, hanno offerto uno spettacolo tanto prevedibile quanto imbarazzante per Washington. Gli USA sono tornati a casa con poche pive nel sacco, e francamente, non c'è da stupirsi. Perché? Semplice: si sono presentati al tavolo delle trattative con la presunzione di chi crede ancora di dettare le regole del gioco globale, quando in realtà la partita è cambiata da un pezzo.
La Cina, dal canto suo, ha mostrato tutto il suo disinteresse per le barriere tariffarie americane—e come darle torto? Quando il tuo mercato interno vale 1,4 miliardi di consumatori e le tue esportazioni verso gli USA rappresentano una fetta sempre più piccola del PIL, le minacce tariffarie suonano come i capricci di un bambino viziato.
Pechino può permettersi di sbadigliare davanti alle pressioni di Washington, mentre quest'ultima si trova costretta a cedere terreno proprio perché ha bisogno della Cina molto più di quanto la Cina abbia bisogno dell'America.
Il risultato? Gli Stati Uniti dovranno inevitabilmente concedere di più nelle prossime tornate, non per magnanimità, ma per pura necessità economica. La dipendenza dalle catene di approvvigionamento cinesi non si risolve con qualche tweet presidenziale o con sanzioni che finiscono per danneggiare più chi le impone che chi le subisce.
Mettiamola giù chiara: la Cina è diventata l'officina del mondo non rubando risorse ad altri paesi, ma costruendo un sistema industriale capace di soddisfare le esigenze globali. L'Occidente, alle prese con costi del lavoro sempre più alti e investitori interessati solo ai profitti di fine anno—non certo alle politiche sociali o alla strategia industriale a lungo termine—ha scelto di delocalizzare la produzione per tagliare i costi. Questa sistematica esternalizzazione, pur redditizia nel breve periodo, ha alimentato la crescita economica e scientifica cinese, sostenuta da una pianificazione strategica decennale e dalla stabilità politica. Il risultato? Una massiccia riduzione della povertà e prosperità condivisa tra le classi medie e popolari.
Nel frattempo, l'Occidente ha vissuto un'erosione economica strutturale. Abbandonando la manifattura senza sviluppare alternative interne, si è improvvisamente svegliato scoprendo una pericolosa dipendenza—principalmente dalla Cina. Che sorpresa!
Mentre la Cina avanzava, ha investito pesantemente nelle proprie capacità tecnologiche. Alcuni di questi metodi sono stati criticati dall'Occidente, ma non dimentichiamo che durante il loro sviluppo, le nazioni occidentali non hanno mai chiesto il permesso a nessuno per replicare o appropriarsi delle tecnologie altrui. In questa corsa al progresso, gli Stati Uniti hanno risposto non con la cooperazione ma con il confronto—etichettando la Cina come rivale sistemico e lanciando una guerra commerciale e tecnologica: semiconduttori, terre rare, AI, veicoli elettrici.
Diciamoci la verità. La Cina non ha iniziato questo confronto. La prima mossa è arrivata da Washington. E ora che fine ha fatto tutta quella retorica sulla libera concorrenza?
Ora, mentre si svolgono negoziati a Ginevra e Londra su tariffe, chip e risorse critiche, non vedo la Cina fare un passo indietro o rinunciare ad asset strategici mentre viene trattata come un nemico geopolitico. Detiene una posizione commerciale più forte: le esportazioni verso gli USA rappresentano ormai solo il 10% circa del totale cinese—e la percentuale sta diminuendo. Se c'è un disaccoppiamento, è largamente una scelta di Pechino, non di Washington,scelta avviata da anni proprio per non essere coinvolta nei capricci dello Zio Sam.
I Negoziati si Scontrano con gli Asset Concreti
Se i negoziati attuali si arenano sulla gestione dei due asset principali—tecnologia dei chip e terre rare—dobbiamo riconoscere un'asimmetria fondamentale: uno è il risultato di ricerca avanzata e innovazione, l'altro è una risorsa naturale su cui la Cina detiene un monopolio incontestato. In questo contesto, è improbabile che Pechino faccia concessioni sulle terre rare, specialmente per applicazioni militari. Washington, d'altro canto, subisce pressioni elettorali per mostrare vittorie simboliche, anche se sono vittorie di Pirro nel migliore dei casi. Il probabile risultato? Soluzioni retoriche confezionate come vittorie strategiche—mentre il problema di fondo rimane irrisolto. Gli USA potrebbero finire per rattoppare la loro dipendenza con mezze misure, faticando a sostenere lo sviluppo militare-industriale che dipende sempre più da risorse controllate dalla Cina.
Essere tagliati fuori dalla tecnologia avanzata dei chip ha solo spinto la Cina a investire ancora più aggressivamente. Ha già raggiunto la produzione di chip a 3nm e sta colmando rapidamente i gap rimanenti. Questa non è una strategia reattiva—è proattiva e a lungo termine. Nel frattempo, gli USA sono bloccati in un ciclo reattivo. Che ironia: il paese che si vanta di essere l'innovatore per eccellenza ora insegue.
Certo, gli USA mantengono ancora la superiorità militare con basi in tutto il globo. Ma nell'era dell'AI, dei droni, degli ipersonici e della potenza di calcolo, il vecchio paradigma del dominio hardware sta rapidamente perdendo rilevanza. La Cina, d'altra parte, ha costruito un'infrastruttura digitale civile chiusa ma robusta e un impressionante programma spaziale—entrambi pilastri della nuova frontiera strategica.
In un mondo dove la politica USA oscilla costantemente tra visioni opposte, l'approccio costante della Cina probabilmente assicurerà un vantaggio a lungo termine. Ironicamente, chi ha scagliato la prima pietra potrebbe finire in una posizione più debole. L'America che per decenni ha predicato la globalizzazione ora ne ha paura quando non la controlla più.
Quello che temo di più non è chi sta avanti—ma l'irrazionalità di chi, piuttosto che ammettere di essere indietro, potrebbe metter mano alla pistola.
Tra i due, solo uno si è comportato costantemente da guerrafondaio. Ed è sotto gli occhi di tutti.
Daniele Prandelli
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